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“Come un molesto insetto mutante”

24/01/2013

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Oggi presento un mio saggio contenuto nel libro Schermi (H)ardenti, nella libreria di Bologna alla quale voglio più bene (MODO, ore 19:00).

Come un molesto insetto mutante narra l’infantilizzazione dello spettatore/consumatore, segue le tracce della trinità di lusso della velocità (fucking machines, automobili, bare) cerca il piacere dove ancora può proporsi come morto vivente rivoluzionario, in un altro cinema (Bruce LaBruce, Christophe Honoré, Shin’ya Tsukamoto,  João Pedro Rodrigues, Bruno Dumont, Bertrand Bonello) e prova a cercare in nuove forme radicali di pornografia non addomesticata una via d’uscita dall’imperativo normalizzante del godimento raccontato da Slavoj Žižek.

Tre estratti:

o-fantasma

Fottere con classe, guidare con classe, decomporsi con classe

Il linguaggio utilizzato per vendere le fucking machines è esattamente il medesimo che si adopera per vendere le automobili e le bare di lusso. È questa una ideale trinità della velocità (altra grande illusione condivisa a cavallo tra i due secoli) che sembra invocare continuamente il piacere, ma di fatto impone i termini della performance; che allude nostalgicamente al recupero di uno spazio privato ed elitario, ma al tempo stesso ne fabbrica uno sovraesposto e commercializzabile; che gioca su un’apologia della riappropriazione del “tempo libero” ma di fatto suggerisce che ciò che distingue il tuo corpo da qualunque altro è solo il fare ricorso a uno standard di alta classe. Il lusso è un diritto, come chiosa il recente spot di un’autovettura. E il sesso (conformato, controllato) è un dovere. Insomma, occorre fottere con classe, guidare con classe, e infine decomporsi con classe.

Il richiamo, per le fucking machines, per le automobili e per le casse da morto è lo stesso. Materiali pregiati, comfort, prestazioni di alto livello e affidabilità garantita sono tutto ciò che il consumatore creativo e sofisticato deve desiderare per distinguersi dalla massa di consumatori omologati incapaci di discernere tra il bene e il male. Per quanto le “Sybian” o fucking machines, o sex machines, siano rivolte in teoria a consumatori di qualsiasi sesso, vengono proposte con tutta evidenza a un consumatore maschio (in grado di spendere una certa cifra) o al massimo, a una donna single, naturalmente con la promessa che “stupirà il suo nuovo compagno quando gli svelerà il suo segreto sexy”. Le case che vendono le macchine più costose fanno addirittura a meno di mostrare i corpi nei video che reclamizzano i prodotti: si vede solo la macchina scintillante, in alta definizione. Il dettaglio anatomico, la carne provata dal congegno (d’acciaio, instancabile) viene solo vagamente evocata, attraverso l’elenco delle caratteristiche tecniche e delle straordinarie capacità performative della macchina – sempre ben separata dall’umano. Qui giocano sottilmente molti topoi del bisogno maschile di controllare, dirimere e scatenare il piacere femminile, seppur per procura: assicurarsi il controllo di una macchina che possiede completamente il corpo femminile, lo “costringe” a abbandonarsi alle pratiche più estreme, come la creatura di Possession o i demoni di Entity; in questo immaginario possono muoversi fantasie distopiche (la macchina tecnologicamente avanzata che prende il controllo e domina l’umano) il fascino industriale del metallo accostato alla carne (specie nel panorama orientale, la macchina rimanda ad attrezzi ortopedici o al medical feticism alla Romain Slocombe) ma soprattutto il tema dell’attivazione a distanza, che nell’epoca della miniaturizzazione e dei device apre a prospettive infinite e scenari già del presente: abbiamo fucking machines portatili, ma anche fucking machines dalle dimensioni di un Godzilla controllabili con la voce, via smartphone, magari un domani via Facebook o Twitter. Il sito Vsex.com permette all’utente di interagire con un’attrice in tempo reale, guidando la sex machine che la “imprigiona” in una sessione via webcam. Il tutto sfrutta la dimensione competitiva del format tv, con un contest che premia l’utente più “bravo” a guidare le macchine del sesso e a assicurare orgasmi multipli alle attrici. Farebbe pensare a A Snake of June di Tsukamoto, se non fosse che in questo splendido film lo sconosciuto che dirime a distanza il piacere della protagonista non è in cerca di conferme sulla propria virilità: è un malato terminale mosso dal bisogno feroce di risvegliare la sessualità e la felicità di una persona con cui è entrato in collisione; è l’ospite, l’intruso scatenante (come il Visitor Q di Takashi Miike) che sottolinea la crudeltà delle dinamiche familiari e le scompagina, le sovverte per ripristinare un piacere che era stato azzerato da una simulazione di vita.

Specter Cosmopolis


Velocità
e performatività sono le parole d’ordine di un addomesticamento che ancora una volta accomuna la rimozione della morte, la depotenziazione del sesso e l’imperativo al consumo. La fucking machine non ha certo il compito di emancipare o liberare il piacere: deve funzionalmente e rapidamente assolvere al suo compito, come una bara o come un carro funebre. L’efficientismo delle esequie metropolitane obbedisce alla logica di ridurre, ricondurre, minimizzare e infine espellere la morte dalla scena sociale, così come l’invito a demandare alla sex machine la propria virile capacità (ahimè, ancora misurata in durata e dimensioni) o all’automobile una dichiarazione di classe sociale, sono compiti sotto dettatura che negano ogni possibilità di andare al proprio ritmo e al proprio tempo, imprevedibile, magari disabile, magari fuori controllo.

Niente più nella città avverte che qualcosa è accaduto: il vecchio carro funebre nero e argento è diventato una banale automobile grigia che si perde nel flusso della circolazione. La società non segna nessuna pausa: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. In città tutto si svolge come se nessuno più morisse. (…) *

Riccardo Notte riprende Ariés, identificando l’elisione del senso della morte con l’accelerazione quale tipico fenomeno della modernità:

La velocità, come si sa, uccide il rito. A tutti è capitato di essere stati superati sull’autostrada dai moderni carri funebri, con le loro smaglianti cromature, pieni o privi del loro macabro carico. (…) Di fronte allo spettacolo della bara-sprint è difficile non avvertire un senso di disagio, come quando si percepisce che qualcosa è fuori posto, fuori dal suo contesto. Perché? Ma è ovvio che le affusolate vetture capaci di raggiungere i duecento chilometri orari rendono ridicola e non credibile, anzi, comicamente paradossale l’immobilità della salma. **

Ecco che si intrecciano di nuovo l’affiorare di una soglia – una prossimità tra vivi e morti, e l’urgenza di liberarsene quanto prima, rifiutando la morte come sospensione dal quotidiano e collocandola in una “nuvola” (cloud) che si dissolve al solo nominarla. Macchina per autostrade, macchina per salotti: non manca chi cerca di costruire da sé la miracolosa sex machine; ma il tono dello scambio di consigli, e perfino di bozze di prototipi, nei forum della rete è quello di una sorta di vocabolario dell’homemade sempre tutto al maschile, per quanto stavolta legato alla costruzione amatoriale e artigianale e non all’hi-tech: l’uomo “normale” (con relazione stabile, spesso famiglia) che si dedica al bricolage – magari rifugiandosi nel suo regno (è ovvio: il garage!) modifica la moto, costruisce una cuccia per il cane o un mobile per il bagno di servizio – invoca suggerimenti per “fare una sorpresa” alla consorte ignara, costruendo di persona lo strumento che darà uno scossone alla routine di coppia.

La maggior parte delle registe post-porno non si soffermano sulle fucking machines se non come oggetto “didattico” per conoscere meglio le modalità del proprio piacere; proprio perché l’equazione tra controllo della macchina e potere di chi la aziona è una caratteristica fondante della maggior parte dei filmati mainstream sul tema, rivolti a un pubblico etero e maschile: il canone tipico consiste in due o più corpi femminili, annoiati, che si sollazzano con una macchina (la fucking machine come diversivo per un gruppo di amiche, non diversamente da un pomeriggio con i casalinghi Tupperware). Lesbiche? Per carità. “Tra di voi è diverso, è una cosa senza importanza, adorabile e inoffensiva, siete come deliziosi animaletti” diceva il Renaud di Colette, minimizzando le avventure erotiche della moglie Claudine con altre ragazze. E infatti presto sopraggiunge sul luogo del delitto Lo Stallone: le nostre non attendevano che lui, la macchina era un suo surrogato, serviva solo a riscaldare le sue prede: ed eccolo interrompere e dirimere a suo piacimento le pulsazioni della macchina, infine sostituirla, soddisfacendo in un colpo solo il mito della durata infinita (pur coadiuvato dalla tecnologia) e quello della protesi: il telecomando della fucking machine, quasi come il mouse o il touchpad, offre la duplice esperienza di voyeur e agente, in una sorta di “point of view” alla Strange Days: guidare la macchina assicurerebbe la percezione dello sforzo della carne sottoposta alla trazione, alla penetrazione, eccetera.

Le macchine più sofisticate, superleggere e laminate, giocano sul loro fascino robotico: promettono di arrivare a 300 pulsazioni al minuto, elencano le possibilità di connessione (wireless, bluetooth) e di programmazione (le playlist). Sui concetti di velocità e resistenza, si pensi a quanto siano rare nella pornografia mainstream le gang-bang con protagonista un uomo. I filmati che mostrano una o più donne dilettarsi con le sex machines sono in fondo poco più che prolungate gang-bang tradizionali, dove l’attrice viene messa alla prova da una serie di maschi indistruttibili, sintetizzati in un motore. L’eventuale sesso lesbico resta un contorno decorativo, come d’altronde in qualsiasi pellicola destinata al pubblico eteronormato. Non a caso alcune Sybian, non contente di “accontentare ogni singolo orifizio” esibiscono il proprio valore di status symbol: legno massiccio, rivestimenti in pelle e radica, elementi che fanno pensare allo studio di un facoltoso, potente e anziano capitano d’impresa – di nuovo, come le scatole di sigari, come un certo tipo di automobili e di bare.

C’è insomma una dialettica tra professionale e amatoriale simile a quella che permane nella rappresentazione pornografica (alta definizione/artigianale) sempre però giocata intorno a un soggetto e a un desiderio troppo limitato. La fucking machine in variante “ginnica”, infine, non troppo diversa da una macchina da palestra usata per potenziare i muscoli, rimanda a una prestazione acrobatica ad alto indice di atletismo, o viene goliardicamente associata ai clichédella cavalcata da rodeo (in USA) e persino della corsa sportiva su pista (il torneo giapponese, la “fucking machines Race” in cui le concorrenti sono legate ciascuna al suo “veicolo”, controllato da remoto). Di nuovo, la prestazione in sè prende il controllo del piacere.

* PHILIPPE ARIÈS, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Paris 1977, trad. it. di Maria Garin, Mondadori, Milano, 1993, p. 660
** RICCARDO NOTTE, La condizione connettiva. Filosofia e antropologia del metaverso, Bulzoni, Roma, 2002, p.59-60

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paradise.circus

[…] Ma la pornografia? Da un lato Courtney Trouble, regista di un post-porno che celebra la compresenza di tutte le variazioni di genere – fin dal 2002, quando crea NoFauxxx.Com come spazio di esplorazione per tutta quella sessualità che intende muoversi al di fuori del dualismo binario dei generi – evidenzia come nella celebre lista Cambria (sorta di autocensura preventiva che l’industria pornografica mainstream crea a seguito della presidenza Bush nel 2000, nel tentativo di non incorrere in problemi penali) l’eiaculazione femminile, le mestruazioni, il fisting, il sesso transessuale e il sesso interrazziale (specie tra coloured e bianche) siano considerati da evitare, in sostanza equiparati alla rappresentazione di stupro, incesto, pedofilia, necrofilia e altro.

Nel suo post del 21 ottobre 2011 The Truth About Fisting Courtney sottolinea come, malgrado la maggior parte degli atti elencati nella lista siano ormai diffusi nel porno tradizionale, molte delle proibizioni rimandino vistosamente a un problema politico più ampio, svelando l’inalterata essenza misogina, omofobica e transfobica della moderna produzione mainstream, oltre che la sua refrattarietà a una sintonia col corpo che nel fisting, ad esempio, vede una pratica relazionale di fiducia e di riscoperta dell’anatomia, in cui si può sentire il battito del cuore del partner.

Dall’altro lato, abbiamo il mercato dello scat, che sembra invece permissivo oltre qualunque confine rispetto alla prossimità con ogni sorta di deiezione e materia gastrointestinale: ma non bisogna approfondire poi tanto questa produzione per scoprire che si muove all’interno dello stesso regime industriale, spesso eteronormativo, che fabbrica il porno tradizionale. Non si tratta naturalmente di “pratiche degradanti” in sé, quanto del contesto in cui vengono formulate: nella stragrande maggioranza dei casi abbiamo attrici donne, caucasiche o sudamericane, che non vedono l’ora di farsi defecare addosso, ingerire tonnellate di escrementi, vomitarle e rimangiarle, in una dinamica che non è certo mistress/slave, ma un circolo chiuso di donatori sterilizzati (rigorosamente maschi) e contenitore pronto a lordarsi (rigorosamente femmina e identificata con una insaziabile latrina) e mai come gesto affermativo del proprio piacere. Alcune proposte di case come Hightide e Mfx (si guardi la brasiliana Latifa, non giovanissima, dalle fattezze quasi anonime, rassicuranti, che potremmo ritrovare in una soap-opera, così come il contesto “domestico” dei suoi film) fanno pensare più alle incursioni militari nei paesi sotto assedio e alle sevizie di Abu Ghraib, che a una riappropriazione dell’organicità del corpo*. È possibile allora una pornografia attivista, consapevole, eversiva, non assimilabile a quelle che sono nient’altro che varianti più o meno scatologiche di una pornografia mainstream normativa e serializzata?

Espandere i confini del “visibile”, del “filmabile” (fino al mito dello snuff) non è la chiave per produrre narrazioni altre, al contrario. Potremmo inquadrare i corpi dello scat più estremo semplicemente all’interno dello stesso sistema descritto da Roberto Calligari in un’analisi dell’impresa pornografica (nel lontano 2005, all’interno di Corpi al lavoro** numero di Millepiani aperto da Jacques Derrida) particolarmente interessante perché anticipava l’attitudine del mercato a vampirizzare anche i fuori scena, gli spazi dove in qualche modo poteva sorgere una spontaneità imprevedibile, commercializzandoli come backstage, bloopers, eccetera. Questi corpi restano impiegati nella produzione di immagini stereotipate, anche e soprattutto perché pronti letteralmente a scomparire all’interno dell’immagine, in un maremoto di vomito e merda (scompaiono letteralmente anche i genitali) al servizio di un occhio che si presume godere della loro “abiezione”: un consumatore in fondo moralista, segretamente disgustato dal grado e dalla densità delle immagini che lo turbano. Questi corpi sono adulti e consenzienti, «maggiorenni certo ed anche consenzienti ad un sistema che promette libertà nel lavoro ma in realtà offre disciplina e costrizione, reddito frammentato e discontinuo, scarsa possibilità di contrattazione», insomma corpi al lavoro – esploso, delocalizzato, flessibile – un lavoro come «illusione di libertà, di autonomia, per corpi che fuggono da una prospettiva di vita fondata sul lavoro “operaio” tradizionale o che sono rimasti “a perdere” rispetto alla fine del lavoro tradizionale; per corpi che contano di poter valorizzare il loro “capitale individuale” minimo”».

E se questi corpi si sottraessero alle rappresentazioni mainstream per farne di proprie?

Non è un caso che le protagoniste autodeterminate del post-porno siano protagoniste di un’attività che va molto al di là di quella pornografica commercialmente intesa: le loro performance, che possono esistere tanto nei luoghi di rielaborazione collettiva, nei festival, nei centri sociali, quanto nei luoghi del pensiero scientifico e di trasmissione del sapere, quali le università dovrebbero essere, sono anche veri e propri workshop pratici su una sessualità consapevole, sul discorso politico dell’alterità e sui diritti delle persone sex workers (rifiutando qualunque pre-giudizio sulla prostituzione e facendo finalmente piazza pulita dello stigma) ponendosi come obiettivo quello di riformulare e reinventare non solo e non tanto la pornografia, ma l’esistenza tutta, anche nei suoi aspetti più quotidiani. Prima le pioniere Annie Sprinkle, Scarlot Harlot, Linda Montano, Candida Royalle, Veronica Vera, poi le trans-femministe di oggi, hanno sovvertito e superato tanto la posizione antipornografia di femministe come Andrea Dworkin, tanto le singole classificazioni (prostituta, attrice, performer, artista) per riportare il discorso della sessualità (e della pornografia) all’interno del discorso della vita.

Nella raccolta di interviste Meduse Cyborg *** Andrea Juno chiede a Lydia Lunch cosa pensa della pornografia in generale. Questa risponde: «Credo che il problema non sia sbarazzarsi di ciò che c’è, ma piuttosto espanderne i confini. Gli uomini pensano di poter sottomettere le donne, e la pornografia soddisfa questo modello. […]». E ribadisce che la soluzione non è certo negare alle donne il piacere e farle sentire in colpa, il che equivale solo a negare loro un potere. La trasformazione della pornografia non deve obbedire tantomeno alle crociate moralizzatrici, perché il punto non è salvare la povera donna reificata **** dice sarcastica la Preciado sul palco del festival di Internazionale, ma mettere in discussione alla radice le tecniche di produzione del piacere, che propongono spazzatura anche nei confronti del desiderio maschile: solo così vedremo delle immagini diverse.

* Sul tema “war-porn” c’è un interessante contributo di MATTEO PASQUINELLI, Warporn! Warpunk! Autonomous Videopoiesis in Wartime, 2005, apparso nella storica mailing list di rekombinant.org.
** ROBERTO CALLEGARI,
Corpi al lavoro, all’interno del n. 29 di Millepiani Corpi al lavoro. Intellettuali e comunicazione nella società pornografica, DeriveApprodi giugno 2005
*** ANDREA JUNO [a cura di]
Angry Women (1991 Re/Search) pubblicato in italiano come Meduse Cyborg e rieditato da Shake Edizioni come Cattive ragazze. Storie di artiste guerriere). Nel testo compaiono contributi di Kathy Acker, Susie Bright, Wanda Coleman, VALIE EXPORT, Karen Finley, Diamanda Galás, bell hooks, Holly Hughes, Andrea Juno, Kerr & Malley, Lydia Lunch, Linda Montano, Avital Ronell, Sapphire, Carolee Schneemann, Annie Sprinkle, V. Vale.
**** L’incontro con Beatriz Preciado è in video sul sito di Internazionale

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Thana(toys)

Molti aspetti di una lettura che Pietro Adamo portava avanti già a partire dagli anni ’90, lo slittamento della rappresentazione pornografica verso il consumo di massa* si sono avverati. Del dominio dell’intrattenimento fa parte anche una certa infantilizzazione dello spettatore/consumatore, una risposta alla tendenza kidult che ha interessato la società occidentale negli ultimi 30 anni. Il sesso non deve essere necessariamente giocoso, per costituire affermazione positiva e vitale. Eppure, per un pubblico che si sa adulto, ma ritiene di avere non solo il bisogno ma addirittura il diritto a una regressione infantile, il sesso viene configurato come una pausa non decisiva rispetto alle attività quotidiane, come un mite sfiatatoio di tempo sottratto a pratiche più utili (sic). Che non riesce a sprigionare gioia però, resta mortale: e getta la maschera proprio quando si propone con le stesse strategie di marketing utilizzate per qualsiasi altro prodotto di intrattenimento. I sex toys diventano appunto, letteralmente, giocattoli, e in quanto tali, vissuti come gadget più o meno irrinunciabili.

In un bel negozio di Vienna, lo Spartacus si nota subito questa pretesa di instaurare una differenza tra gli inoffensivi giocattoli per il kidult e gli oggetti che conservano ancora una pretesa trasgressiva (ma sono anche solo strumenti di lavoro per professionisti del sesso) una differenza che si tenta di far permanere non solo dal punto di vista commerciale, ma anche dal punto di vista spaziale e architettonico. Al piano superiore, con le vetrine sulla Mariahilferstraße, strada di grande passaggio, vibratori scintillanti in astucci di velluto sono offerti alla vista all’interno di espositori cristallini del tutto simili a quelli concepiti per gli accessori di boutique e alta gioielleria; in esposizione ci sono dolls e male dolls nelle loro brave confezioni, piccoli gadget, capi d’abbigliamento vagamente erotici, ma pur sempre accettabili nel contesto di una festa o di una cena mondane, con l’aggiunta di tocchi puramente simbolici: qua una cintura con due piccole manette d’argento, là oblò, spacchi e tagli strategici nel tessuto, reti e legacci di cuoio… Solo al piano di sotto – visto che ovviamente si discende agli inferi – il regno del BDSM, paradossalmente si ha finalmente la sensazione di riappacificarsi con una sessualità almeno ancora drammatizzata: qui le maschere almeno non sono la versione in pvc di quelle disneyane. Alcune si richiamano vagamente allo stile veneziano di Eyes Wide Shut, altre ancora, le più interessanti, sono pesanti teste teriomorfe, sagome di cane o di lupo (l’animale che rientra dalla finestra per ricongiungersi con l’umano) gag e morsi sono in cuoio e metallo, fruste, divaricatori, pinze e materiali per l’elettrostimolazione si presentano con medicale austerità e si intrecciano alla body modification forse prima che alla pornografia. Oggetti che sono comparsi spesso nelle performance di collettivi femministi, transgender, cyberpunk, antipsichiatrici, e prima ancora nel teatro di avanguardia, nella body art, live art, action art (in modi molto diversi, l’azionismo viennese e l’Orgien Mysterien Theater, Hermann Nitsch e Otto Muehl, Gina Pane, Vito Acconci, Carole Schneemann, Hannah Wilke, Stelarc, Franko B).

Perché? Non certo perché le pratiche BDSM siano di per sè indicative di una sessualità più intensa o più vera – insomma, la distinzione tra i due piani del negozio in fondo è solo una formalità – ma perché questi oggetti sono stati usati e giocati in un apparato di significanti radicali che rimettono in discussione tutta una serie di coordinate sociali e politiche; leve simboliche che servono a rivendicare, prima ancora che a marchiare a fuoco la carne, un decentramento necessario; Thanatoys, non semplici toys.

Oggi ha molto senso parlare di body art se si osserva ad esempio la parabola del sabotatore Genesis P. Orridge, fondatore del collettivo COUM Transmission, di Throbbing Gristle e Psychic TV, agitatore culturale insieme a William Burroughs, Derek Jarman, Timothy Leary, Brion Gysin. Come racconta il recente film di Marie Losier, The Ballad of Genesis e Lady Jaye, a partire dai ’90 Genesis e la complice, amante, amica Lady Jaye tentano di fondere le rispettive identità, anche attraverso la chirurgia plastica, la terapia ormonale, il travestitismo e la modifica del comportamento, incarnandosi in un Terzo, S/he, Her/e: Breyer P-Orridge, figlio della “Pandroginia”. Anche dopo la perdita di Lady Jaye a causa di un tumore, Genesis continua a plasmare le sue fattezze su quelle della compagna di vita in un’operazione più sacra di qualunque metafisica, convinto che anche la mortalità debba essere riconsiderata alla luce della sintassi bizzarra e unica dell’amore. Il progetto di trasformazione reciproca dei corpi dei due amanti è stato molto più che una posizione teorica sul sesso e sul genere e opera uno scarto violento, dall’idea di evoluzionismo come miglioramento performante alla pratica della migrazione e del transito come «una via nuova per la razza umana che non riguardava la guerra, il conflitto, la frizione o la violenza, ma l’inclusione, l’uguaglianza e la similarità: “abbracciare” l’altro, “abbracciare” tutti gli altri. Per noi era diventato, nuovamente, qualcosa che riguardava la distruzione del controllo e l’evoluzione vista come una necessità della nostra specie, non solo per sopravvivere ma anche per essere creativi, prosperare e diventare speciali».

In questo processo il piacere gioca un ruolo fondamentale: «è un’arma, la strategia più importante di tutti i tempi», e più che la vendetta sulla nostra mortalità, come recita il vecchio adagio, un modo per ricongiungerci ad essa: An orgasm is a mystical instant that doesn’t really exist in this dimension, recita Georgina Spelvin nel video-confessione che accompagna Paradise Circus dei Massive Attack, centrato sulla continuità tra il suo bellissimo corpo giovane inThe Devil and Miss Jones di Gerard Damiano e il suo bellissimo viso anziano che si racconta nel presente.

Per il Roberto Marchesini di Post-Human già oltre dieci anni fa la body art appariva forse come l’ultimo tentativo diesibire in modo problematico lo spazio e l’identità del corpo** di fronte all’avvento del posthumanesimo, in cui il concetto stesso di identità sfuma e muta fino a diventare pluralità dai confini in potenza illimitati ed elastici. Il corpo invaso ha imparato ad alimentarsi di realtà esterna, a cercare la libertà attraverso il corpo, anziché nel corpo.

L’urgenza allora non è certo fare della “pornografia artistica” (quando questo accade è un completo fallimento, una furba patina conformista passata in fretta e furia su immagini ancora stereotipate, come nel superfluo Destricted del 2006, film collettivo che coinvolgeva Marina Abramovic, Matthew Barney, Gaspar Noé e Larry Clark tra gli altri). L’idea è invece usare lo schermo come grimaldello per uscire dallo schermo: lo schermo (h)ardente è il corpo ibrido, e se lo schermo (della tv e sempre di più, del dispositivo hardware, del pc, del palmare, del tablet) è soprattutto scudo, riparo, difesa, specchio, il corpo deve iniziare ad essere magico per far sì che ne scaturiscano delle rappresentazioni autenticamente eversive.

Deve dunque tirarsi fuori anche da quella retorica del mutante e dell’ibrido*** che paradossalmente, con la promessa di una “liberazione”, rischia di perpetrare il paradigma cartesiano e il dualismo mente/corpo attraverso un’interpretazione meccanomorfa dell’organismo. Se la storia della cultura occidentale può essere letta come un lungo, tenace processo al corpo, massimo imputato di ogni accusa, visto come prigione che ostacola l’espressione dello spirito immortale, ricettacolo di vizio e di passioni negative, oggi questo non viene più, classicamente, legato al demoniaco, ma viene ancora percepito come negativo a causa della sua transitorietà e vulnerabilità, in aperta contrapposizione con la mente quale “serie di configurazioni algoritmiche”: è sempre l’ottimo Marchesini a cogliere come si sia affermata ne ventunesimo secolo una tendenza a ripossedere il corpo, ma per costruire un processo di sostituzione dello stesso: corpo che va smontato e riprogrammato per i transhumanisti (Moravec, More, Chislenko) rafforzato e riconfigurato attraverso innesti che ne garantiscano il pieno controllo per gli iperhumanisti (Lèvy, de Kerckhove, Stelarc). Solo a una mente disincarnata sarebbe garantito il pieno e totale controllo del corpo (una dittatura non troppo dissimile da quella della moderna farmacologia). Apparentemente opposti, due modelli contribuiscono ad adottare in fondo sempre un modello antropocentrico e a rifiutare l’irruzione dell’alterità: l’orrore tecnofobo verso tutto ciò che è contaminerebbe il “naturale”, l’”umano”, e l’entusiasmo tecnoentusiasta verso tutto ciò che lo trascende, in una nuova metafisica che accetta solo un’alterità performante.

Anche Žižek in questo senso parla di pericolo di “smaterializzazione” transhumanista, e legge il rischio di concepire il sogno del cyberspazio quale «realizzazione scientifico tecnologica del sogno gnostico del Sè che si libera della decadenza e dell’inerzia avvinte alla realtà materiale****». Con una delle sue fascinose associazioni vede nello spazio dostoevskjano in cui i non-morti possono parlare senza costrizioni morali la prefigurazione del cyberspazio come sede al riparo dalla molestia dell’altro, e una punta di xenofobia nell’attrattiva del sesso cibernetico: «Due sono i temi che determinano l’odierno atteggiamento liberal-tollerante verso gli altri: rispetto e apertura nei confronti dell’alterità da un lato e l’ossessiva paura della molestia dall’altro. L’altro ci sta bene nella misura in cui la sua presenza non è intrusiva, nella misura in cui, cioè, l’altro non è davvero altro*****».

A distanza di qualche anno l’uno dall’altro, sia Marchesini che Žižek indicano come terza via quella di un post-humano (con Haraway, Kelly, Deitch) in cui finalmente si ritiene superata ogni pretesa di possesso sul corpo in nome della libera coniugazione del corpo al mondo. Con le parole di Katherine Hayles (citate da Žižek):

Se il mio incubo è una cultura abitata da esseri post-umani che osservano i propri corpi come degli accessori di moda piuttosto che come radici esistenziali, il mio sogno è una versione del post-umano che abbracci le possibilità della tecnologia dell’informazione senza venir sedotta da fantasie di potere illimitato e di immortalità disincarnata, che riconosca e celebri la finitezza come condizione dell’essere umano e che comprenda la vita umana come incastonata in un mondo materiale di grande complessità, dal quale dipendiamo per la continuazione della nostra sopravvivenza******

Come si inserisce il piacere in questo discorso? Tra gli scrittori contemporanei più attenti al rapporto tra mortalità, sessualità e tecnologia c’è Michel Houellebecq, e lo sottolinea sempre Žižek a proposito della prospettiva in qualche modo in bilico tra post-humano e trascendente diLa Possibilità di un’isola.

Quasi quaranta anni fa Michel Foucault congedava l'”Uomo” come una figura tracciata nella sabbia e destinata ad essere cancellata via, introducendo (di conseguenza) la seducente topica della “morte dell’uomo”. Sebbene Houellebecq metta in scena questa sparizione in termini letterali molto più ingenui, come la sostituzione dell’umanità con una nuova specie post-umana, vi è un comune denominatore tra i due: la sparizione della differenza sessuale. Nelle sue ultime opere, Foucault ha tratteggiato il campo dei piaceri liberato dal sesso e si sarebbe tentati di sostenere che la società post-umana dei cloni di Houellebecq sia la realizzazione del sogno foucaltiano dei Sé che praticano l'”uso dei piaceri”. Benché questa soluzione sia pura fantasia, l’impasse a cui reagisce è reale – come uscirne? […]*******

Non solo in tutte le sue opere Houellebecq svela il contributo della pornografia al rinnovo di un neoliberismo efficientista, coercitivo, laddove «il valore di un essere umano si misura tramite la sua utilità economica e il suo potenziale erotico» (situazione ideale di nuovo colonialismo, di scambio ideale tra un Occidente privilegiato e svuotato e il sud del mondo, che non possiede più nient’altro che il proprio corpo da barattare) ma in Piattaforma fa piazza pulita anche di un certo equivoco dell’estremo, riproponendo il tema della solitudine dell’individuo di fronte a un’impossibilità della scelta, che si fa impraticabile a fronte di una totale indeterminatezza, a una fatale incapacità di leggere i propri bisogni reali. Ingiustamente accusato di misoginia, Houellebecq fa dire alla sua Valérie, certo non pudica nè moralista, anzi persona che vive la sua sessualità con uno slancio irresistibile, al ritorno da un club BDSM descritto un po’ come la versione dark di un copione da animatori Club Med: «La cosa che mi fa più paura in questa faccenda è che non esiste più il contatto fisico. Hai visto, no? Sono tutti bardati dalla testa ai piedi, il contatto avviene solo tra pelle e strumenti di tortura, o tutt’al più guanti. I corpi non si toccano mai, non c’è mai un bacio, mai una carezza, niente. E per me questo è l’esatto contrario della sessualità********». In Occidente la rivoluzione sessuale è bell’è finita, conclude il protagonista Michel, che aggiunge:

[…] Il sadomasochismo organizzato, con le sue regole e i suoi rituali, può concernere soltanto persone colte, cerebrali, per le quali il sesso abbia perduto ogni attrattiva. Per gli altri è rimasta un’unica soluzione: il materiale porno; se invece vogliono del sesso reale, devono andarselo a procurare nei paesi del terzo mondo.*********

Anche la tortura (si veda la convenzionalità di un sito come Torture Galaxy che gioca miscelando violenza fisica e premesse tranquillizzanti – “è un gioco di ruolo fantasy interpretato da attori professionisti”, si legge in home page) quando non venga iniettata come climax metanfetaminico nel circuito mediatico dell’intrattenimento, si configura essenzialmente come un’altra variante di quello sterminato mercato in cui la proliferazione e la varietà dei prodotti non corrisponde a un effettivo movimento di sottoculture – anzi nemmeno di culture, sotterranee o meno – un paesaggio in cui la diversificazione funziona come dispositivo di non-scelta, al pari della sovrabbondanza di merci in un ipermercato.

Nella lettura che Andrea Celli********** fa di Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity di Judith Butler, si esamina proprio questa fittizia libertà di scelta, possibile solo a patto che non venga messo in questione lo stretto conformismo che deve vigere nella sfera pubblica:

Diciamo che il mercato educa ai generi e sottogeneri della pornografia, sorretto da una non dichiarata certezza, quella della assoluta libertà di scelta, nella tipologia e nella gradualità, da parte dell’utente: tu vuoi questo, vuoi “porno-chic” o “softcore”; vuoi pornografia anale eterosessuale, la vuoi feticista […] vuoi pornografia omosessuale, lesbica (ad uso ovviamente maschile), bisessuale, transessuale, prenatale, escrementizia, bestiale, interraziale, masochista […] I generi operano identicamente irreggimentando come protesi la sessualità dell’utente, spiegandogli cosa vuole e confermandolo circa la sua natura sessuale. “Tu sei omosessuale” o “tu sei un eterosessuale” non è per una certa parte di questo controllo sulle coscienze (che funziona sul modello dei “cookies” scaricati nel proprio computer) troppo significativo. Ciò che deve essere rafforzato è il “tu vuoi qualcosa”, un certo tipo di buchi, di gesti, di prodotti.

La varietà è assicurata: le varianti sono infinite, come in un sistema a circuito chiuso che si rivolge a visitatori di passaggio e “cultori della materia”,che funziona anche per coordinate geografico/razziali (Caucaso, Stati uniti, Sudamerica, Asia) dichiarandosi pronto a soddisfare in chiave enciclopedica e pop le istanze più originali (le proposte di Cocoa Soft, suddiviso per distinti feticismi, che sembra voler ospitare ogni tipo di umore pensabile), dove le derivazioni più forti come lo scat (gagging, eating, vomiting ecc.), se associati a una messa in scena banalmente brutale, non fanno altro che spostare insensibilmente il confine verso un approdo impossibile: quasi che la proliferazione dei gusti abbia a che fare realmente con le differenze! Ecco perché Celli propone di ridare centralità al termine trouble in una definizione della nostra realtà antropologica: una difficoltà, un turbamento, una “domanda”: una messa in discussione che non si limita a rivendicare una propria diversità sessuale come sovversiva.

* PIETRO ADAMO, Il porno di massa. Percorsi dell’hard contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina, 2004.
** R. MARCHESINI, Post-Human, cit., si legga in particolare il capitolo Somato-Landscape
*** Ivi.
****
SLAVOJ ŽIŽEK, Leggere Lacan, Guida perversa al vivere contemporaneo, cit., p. 116
***** Ivi., p. 118
****** SLAVOJ ŽIŽEK, Credere, Meltemi, Roma, 2005 – Contro l’eresia digitale, p. 93
******* Ivi., p. 98
******** MICHEL HOUELLEBECQ, Piattaforma. Nel centro del mondo, Bompiani, Milano, 2001, p. 160
********* Ivi., p. 202
********** A.CELLI, Judith Butler e il “trouble”. Affrontare la pornografia con l’estetica

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